REPORTAGE Mongolia: L’ultimo paradiso selvaggio occidentale è un infernoConsigli di viaggioREPORTAGE Mongolia: L’ultimo paradiso selvaggio occidentale è un inferno

REPORTAGE Mongolia: L’ultimo paradiso selvaggio occidentale è un inferno

Mongolia paesaggio infinito

In un mondo in cui tutto è stato già scoperto, visto, fotografato, è difficile trovare ancora un Paese che sia in grado di sorprendere.

Di sconvolgere le nostre aspettative, nel bene e nel male, con la sua assoluta verginità, con l’impressione di essere i primi turisti a metterci piede, in un luogo selvaggio e inospitale dove il lusso non esiste, esiste solo l’autentica e dura vita nomade. 

In un mondo del genere, sono tanti i turisti che cercano nelle emozioni forti che un Paese del genere potrebbe regalare uno sprizzo di avventura, una favilla di unicità.

cavalli di przewalski Mongolia

Cavalli di Przewalski Mongolia ©Nicola Di Monte

E questi turisti, spesso, finiscono per trovarla in Mongolia.

Il problema è che spesso l’ultimo paradiso incontaminato nel nostro continente finisce per somigliare più a un inferno, per chi sostiene di essere pronto a un’avventura selvaggia ma sottovaluta quanto davvero possa essere “selvaggio” il grande nulla della Mongolia.

La grande bellezza della Mongolia: il Nulla

Mongolia paesaggio infinito

Mongolia paesaggio infinito ©Nicola Di Monte

La terra del cielo blu è un luogo in cui il nulla è un’entità ben visibile e sempre presente, anzi ne è proprio la principale attrazione: una vastità vuota e infinita, noiosa ma affascinante, drammatica ma bellissima, in cui lo sguardo si perde per ore a osservare il paesaggio che cambia lentamente. 

Occasionalmente appare una ger bianca, le tipiche tende circolari dei nomadi, o un branco di cavalli all’apparenza selvaggi, dietro ai quali si scorge poi il pastore in sella al suo destriero (un altro cavallo o, più spesso, una moto).

La parte occidentale della Mongolia è quella che meglio rappresenta questa vastità incontaminata e la selvaggia autenticità di un viaggio in questa terra. Lasciata la capitale Ulan Bator, un accrocchio di palazzi sovietici e moderni grattacieli svettanti, circondati dal tipico squallore delle città del terzo mondo cresciute troppo in fretta, ci si ritrova subito circondati da quel bellissimo nulla.

nomade mongolo al pascolo

nomade mongolo al pascolo ©Nicola Di Monte

Ma ci si accorge anche in fretta di aver lasciato qualsiasi idea di comfort alle spalle: se nella grande città è sempre possibile trovare un letto pulito, un wc e una doccia calda, basta fare pochi chilometri nella steppa per accorgersi che ci si trova in un altro mondo.

Negli ultimi anni il governo mongolo ha fatto un grande sforzo e investimenti nelle infrastrutture stradali, per cui le principali località sono ora collegate con strade asfaltate che tagliano le dolci pianure bionde in una singola direzione. Ma quando si vuole deviare dalla strada maestra, è il regno dei 4×4 e delle moto.

il nulla della Mongolia

il nulla della Mongolia ©Nicola Di Monte

Un reticolo infinito e finemente intrecciato di strade sterrate percorre la steppa in tutte le direzioni, senza cartelli stradali, senza autogrill né stazioni di servizio, in un paesaggio inospitale dove per centinaia di chilometri si può non incontrare nulla a parte qualche ger. in luoghi del genere, dove il cellulare non ha ovviamente segnale, anche una semplice gomma bucata può diventare un problema molto grave.

Gli autisti mongoli lo sanno benissimo, e la loro capacità di scegliere la “strada” migliore ha del magico: entrano ed escono dallo sterrato principale in cerca della soluzione meno traumatica per le sospensioni, con sassi meno appuntiti, o semplicemente aprono una nuova traccia tra i bassi arbusti spinosi.

deserto mini gobi mongoli

Deserto mini Gobi in mongolia ©Nicola Di Monte

In questi luoghi, su queste strade, il tempo assume un significato tutto proprio: 50km possono significare 2 o 3 ore di viaggio, una pioggia imprevista può sbarrare la strada con fiumi imponenti difficili da guadare, e i luoghi che si incontrano lungo il cammino per fare una pausa sono tutto fuorché confortevoli.

Fare un viaggio in questo Paese, specialmente in queste zone, significa fare un tuffo di testa in un passato dove tutto è difficile, basilare, scomodo.

Lasciate ogni comfort o voi ch’entrate

Non c’è molto ad accogliere il viaggiatore, anzi direi proprio niente: hotel e guesthouse qui non riceverebbero nemmeno una stella in Italia, con le tubature a vista che spesso gelano durante le notti sotto zero, le prese della corrente che si staccano dal muro a un tocco non abbastanza delicato, e porte che rimangono in mano allo sventurato che cerca di avere un po’ di privacy.

ger e minibus mongoli

Ger e minibus mongoli ©Nicola Di Monte

Il cibo manca della varietà e del sapore a cui siamo abituati in Italia e gran parte d’Europa.

La dieta mongola è principalmente composta da carne, soprattutto di montone, dall’odore intenso e la consistenza nervosa.

Il grasso non è un elemento di disturbo da scartare, ma una prelibatezza che i mongoli godono a succhiare rumorosamente mentre ingoiano zuppa e noodles. Dopo pochi giorni l’odore caratteristico della carne bollita e del latte non pastorizzato diventeranno un più o meno piacevole compagno di viaggio in questo Paese.

pastore mongolo con cavallo

Pastore mongolo con il proprio cavallo ©Ilaria Cazziol

Ma la cosa che forse risulterà più difficile da accettare al turista in Mongolia sono i bagni.

Non si sfugge, a meno di scegliere i migliori hotel della capitale, i bagni saranno un punto dolente di qualsiasi struttura. Nella stragrande maggioranza dei casi, non saranno proprio wc. Ma nemmeno definirli “alla turca” darebbe loro giustizia.

Più spesso che non, si tratta di semplici strutture di legno situate a qualche centinaia di metri dall’abitazione principale. Tetto in lamiera e due porte a suddividere una coppia di bagni, uomini e donne. E dietro la porta…un buco. 

Qualche asse di legno con un immondo buco in mezzo, che si affaccia sulle proprietà lasciate dagli avventori precedenti, con diversi livelli di profumazione e di profondità a seconda delle situazioni.

wc mongolia

Un esempio di ingegneria becera per wc in Mongolia ©Ilaria Cazziol

Nei peggiori dei casi la permanenza in queste strutture è strettamente a tempo, con pochi secondi a disposizione prima che la nausea prenda il sopravvento. Nei migliori, si tratta di capolavori di ingegneria becera, con tanto di porta carta igienica, profumatori per ambienti e all’occorrenza un wc montato sopra il buco. Volendo, anche una sedia il cui sedile è stato rimosso può farne le veci.

A circondare questa serie di difficoltà c’è l’attitudine dei mongoli: un popolo duro, serio, con una lingua fatta di raschi gutturali e di schiocchi scivolosi, e dagli occhi profondi e scuri come le loro montagne. Oppure occasionalmente chiari come il ghiaccio che solcano a cavallo.

ritratto cacciatore con l'aquila mongolo

Ritratto di un cacciatore con l’aquila mongolo ©Ilaria Cazziol

Non parlano inglese, e ti guardano perplessi mentre cerchi di chiedere informazioni o soluzioni. Non perdono mai la calma, e dai loro occhi dalle palpebre pesanti non traspare la minima emozione: questa è la maniera nomade.

Secoli nelle steppe gli hanno insegnato la pazienza, il ritmo, la resistenza, il coraggio, e non sarà certo qualche viaggiatore europeo schizzinoso a fargli perdere le staffe.

Eagle hunter mongolo

Eagle hunter mongolo ©Nicola Di Monte

Insomma, l’ultimo paradiso incontaminato e selvaggio somiglia molto a un inferno in terra, disseminato di buchi pieni di feci, odori pungenti e totale mancanza di comfort. Perché mai qualcuno dovrebbe volerlo visitare allora? 

Perché visitare la Mongolia della scomodità?

La risposta risiede nella domanda stessa, e in quel fantomatico Nulla di cui parlavamo in principio. Non ci sono molti altri posti in cui si può trovare tutto questo, o meglio, l’assenza di tutto ciò a cui siamo abituati, e per chi è in grado di accettarlo diventa un processo liberatorio.

vulcano Khorgo in Mongolia

Vista dal vulcano Khorgo in Mongolia ©Ilaria Cazziol

La Mongolia è una terra dura, inclemente, scomoda, che ci riporta alle origini, alla base della scala dei bisogni, dove tutto ciò che conta è avere un luogo dove dormire la notte, vestiti caldi per coprirsi, cibo nel piatto.

Una terra in cui ogni sofferenza è ripagata dai paesaggi che scorrono fuori dal finestrino, dalle montagne innevate sullo sfondo, dalle aquile che si alzano in volo al passaggio, dal reticolo di strade che disegna motivi grafici nella steppa infinita, delle stelle tanto luminose da illuminare il bianco delle ger.

cielo notturno della mongolia

Il cielo notturno della mongolia ©Nicola Di Monte

“Lasciate ogni comfort o voi che entrate” reciterebbe un cartello all’ingresso di questo inferno, pronto a scoraggiare chi non ne è davvero pronto.

Mentre chi sappia davvero farlo potrebbe finire per scoprirvi invece un paradiso.

Perché se si rinuncia all’idea europea di vacanza, ad attendersi comodità, servizi, attenzione al cliente e quell’attitudine nei confronti del turista che ormai ha pervaso ogni angolo e parte del mondo, non si rimane delusi. E si scopre che quel nulla è pieno di tutto.

Un nulla pieno di tutto

È pieno di ger bianche, tanto per cominciare, disseminate per il paesaggio come piccole oasi di accoglienza. Lasciato il desiderio di comfort ci si ritrova a saziarsi con tutto il resto: la risata cristallina dei bambini, i branchi di cavalli selvatici al galoppo, il sorriso di una nomade che ti invita nella sua tenda.

La risata di un bambino mongolo

La risata di un bambino mongolo ©Nicola Di Monte

In queste case mobili, ideate per essere smontate e rimontate in poche ore, c’è tutto un piccolo mondo.

C’è la stufa, il fulcro della vita e del calore, che dal centro spande il suo calore secco nell’aria.
C’è un piccolo tavolo che ospita tante prelibatezze, almeno per il gusto nomade: tè salato, formaggi acidi di pecora, capra e cammello, yogurt e burro fatto in casa, liquori estratti dai prodotti caseari.

Il centro dell’ospitalità mongola

Prelibatezze che l’ospitalità nomade impone di servire senza riserbo a chiunque varchi la soglia (rigorosamente con il piede destro e senza calpestare il legno della porta, come da tradizione).

Può sembrare un modo di dire, in fondo ormai sono più i popoli che si pregiano di essere “i più ospitali al mondo” di quelli esistenti. Ma nella Mongolia delle grandi steppe e del nulla, è una necessità: chiunque solchi queste terre deve saper contare sull’ospitalità del prossimo, perché un giorno potrebbe servire a lui.

bambino nomade in una ger

Bambino nomade in una ger ©Ilaria Cazziol

E poi immancabile il latte: fresco appena munto, oppure fermentato per farne un delicato alcolico, il latte di cavalla, di cammello, di capra o di mucca riempie con il suo odore acre ogni ger.

I proprietari offrono agli avventori tutto ciò che hanno, senza chiedere nulla in cambio: questa è l’ospitalità nomade, ma anche il viaggiatore straniero può sapere che a qualunque ger busserà riceverà aiuto e un pasto caldo.

In questi capolavori di ingegneria nomade si passa la giornata ma anche la notte: i letti non servono, sono inutili comodità occidentali, ci sono spesso tappeti e coperte ruvide ma calde.

E poi c’è la stufa, che trasforma la ger in una momentanea sauna.

Non c’è la tv, anche se alcune ger c’è da dire che sono dotate di pannelli solari e antenne.

Qui si cucina, che cucinare su una stufa con una sola pentola non è impresa facile, si parla, si gioca con i bambini sempre curiosi e dolcissimi, magari si legge.

E intanto il sole tramonta fuori dalla porta in legno decorato, il padrone di casa ritorna dal pascolo con il gregge, stanco ma fiero, e il ciclo delle giornate nomadi si prepara a ricominciare.

Il ritmo è quello semplice e antico della natura, scandito dagli appuntamenti quotidiani come la mungitura, dalla soddisfazione dei bisogni primari, dalla meraviglia davanti alle piccole cose, anche quelle minuscole.

Anni luce lontani dalla frenesia e dalla corsa costante al di più, al meglio, a cui siamo abituati. Un contesto che non è di povertà, come in altre parti del mondo, ma di fiero attaccamento alla tradizione nomade, che collega con un filo invisibile i figli di Gengis Khan alla steppa che una volta è diventato il maggiore impero del mondo.

alba fuori dalla ger in Mongolia

alba fuori dalla ger in Mongolia ©Nicola Di Monte

E quando l’alba spunta dietro le colline illuminando l’erba e facendo brillare la brina, si esce a cercare un bagno con vista dietro qualche cespuglio invece che in un buco, e si respira a pieni polmoni l’aria fredda e limpida ben lontana da quella greve delle città.

Ecco, forse in questo momento il viaggiatore che davvero abbia avuto il coraggio di uscire dalla comfort zone e di abbracciare l’autentica vita nomade può avere un’illuminazione. Un pensiero sorprendente, mentre ci si rende conto che quella posizione in squat è diventata quasi comoda.

“Forse è per questo che lo chiamano paradiso…”

 

Un abbraccio,
Ilaria

Spericolata, iperattiva, curiosa, ma anche riflessiva, emozionale, romantica. Un casino, insomma. Nel viaggio le mie due anime trovano pace, e nel lavoro come copywriter da remoto, con i miei tempi e le mie modalità, trovo la mia dimensione lavorativa.

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